di Sabine Abusaada e Cecilia Beretta
Una distesa di ulivi, pioggia, gli uccelli che cinguettano e un luogo sospeso nel tempo e nello spazio, tre attori, una coppia e un reporter, che si aggirano in una valle desolata e due stanze. La regista di Nazareth Maha Haj ci spiazza con un mediometraggio teatrale, Upshot, che con la sua visione inedita ha saputo conquistare la giuria del Festival del cinema di Locarno, vincendo il Pardino d’oro Swiss Life e il Premio della Giuria dei giovani.
La trama è molto essenziale: marito e moglie vivono e coltivano la terra in un luogo bucolico e desolato al contempo e si raccontano alcune conversazioni telefoniche con i cinque figli che non possono raggiungerli, finché non arriva un giornalista, ex compagno di classe di uno di loro e orfano di genitori, che si intrometterà nelle loro vite nel tentativo di intervistarli sul loro passato. Il film è distribuito in Italia, purtroppo con molta difficoltà, da Okta Film.
La regista ci dice subito che stiamo entrando a volo d’uccello in una sorta di luogo immaginario utopico o distopico, a seconda dei punti di vista: “In the future…somewhere”, leggiamo in sovraimpressione all’inizio del film. Forse perché la pellicola è stata girata proprio con questa disposizione d’animo, cinque giorni dell’autunno del 2023 rubati alla distruzione in una valle isolata della Galilea, una terapia di gruppo da parte della troupe che ha saputo creare un luogo di libertà nella cosiddetta “unica democrazia del Medio Oriente”. Per stessa ammissione della regista il film si è costituito più come un vero e proprio momento di cura in cui tutti erano più interessati a quello che stavano facendo mentre lo stavano facendo più che, ironicamente, al vero e proprio “Upshot”, letteralmente: conseguenza, esito, delle riprese. La consapevolezza di stare facendo qualcosa per Gaza era un dono in sé.
Il film, coprodotto da Italia e Francia, ha rischiato di venire girato in Italia proprio per l’intensificarsi dei bombardamenti israeliani ed è stato finanziato da fondi privati perché per il Ministero della Cultura italiano la Palestina non è nell’indice degli stati con cui è possibile co-produrre un film, è come se non esistesse. Il produttore che sta cercando di accreditarla, un primo passo simbolico, piccolo ma significativo, purtroppo non ha ancora avuto una risposta definitiva dal Ministero.
Haj, in una presentazione al Cinema Beltrade di Milano ha raccontato che il film, scritto nel giugno del 2023, è stato rifiutato per mesi da tutte le case di produzione a cui era stato sottoposto. Inspiegabilmente, o forse non così tanto, dal 7 ottobre in poi qualcosa si è mosso e le persone hanno cominciato a interessarsi al progetto. È stato girato mentre gli aerei da guerra solcavano il cielo sopra di loro e nonostante tutto la regista è riuscita a creare un mondo sospeso, un tempo irreale che viene dopo qualcosa che è successo una volta per tutte.
La regista, con la scelta di dare vita ad un prodotto artistico, un film di finzione, sembra volerci dire che per descrivere alcuni avvenimenti il racconto documentario e la testimonianza non sono sufficienti. Per quanto sia fondamentale che documentari e reportage sulla Palestina continuino a essere girati, scritti, letti e visti, davanti a certe tragedie può essere necessario fare un passo ulteriore, entrare nella fiction, come fa il giornalista che irrompe nella vita dei due protagonisti e accetta di entrare nella narrazione addolorata ma piena di vita e futuro, anche se solo immaginario, dei due protagonisti.

Sebbene possa sembrare inizialmente un meccanismo di rifiuto e negazione della tragedia che li ha colpiti in realtà può essere letto anche come espressione e volontà di plasmare il proprio futuro, anche se solo all’interno di un infinito gioco immaginativo, con tinte opposte a quelle che l’oppressore israeliano ha deciso per loro. Inventarne uno nuovo e riscriverlo, cucirlo come un maglione nuovo, dargli consistenza per raccontare di litigi, bambini che mettono i denti, fidanzati inadeguati.
Non un futuro di sofferenza e morte, ma di vita, di nipoti, donne che fanno il dottorato, mogli che lasciano i mariti perché lavorano troppo e figli sfaccendati che non hanno ancora deciso che farsene di questo futuro che in realtà non avranno mai l’occasione di vivere.
Sebbene spezzati dal dolore non si sono piegati ad esso e hanno deciso di non rimanere cristallizzati nel tragico passato che è accaduto loro in sorte ma di determinarsi attraverso la decisione di andare “oltre” in un modo che loro stessi hanno scelto come via di fuga per sottrarsi all’inferno, facendo propria la narrazione di quel futuro.
Il film ci lascia con l’interrogativo: cos’è la realtà? Forse eccede le cose che ci capitano, è fatta di sogni, speranze e soprattutto amore che non muore con la carne che si decompone.
Come scriveva Refaat Alareer:
Se dovessi morire
che porti allora una speranza
che la mia fine sia una storia!
La regista ci mette davanti agli occhi il limite della fedeltà del racconto per vissuti che superano l’accettabile. Vorremmo far riflettere sul fatto che questo film non è circolato nelle sale nonostante sia stato premiato a Locarno forse perché, a differenza del pur ottimo No Other Land che consigliamo a tutti di vedere, non può essere facilmente fatto ricadere nella retorica della pace tra i popoli. Qui non ci sono israeliani buoni, non c’è nessuna concessione all’anima bella dello spettatore e quindi anche per questo motivo ci sembra ancora più importante proiettarlo e continuare a farlo girare perché la sua vita non si limiti a quella dei festival.
Ricordiamoci comunque che No Other Land ha vinto l’Oscar ma questo fatto non ha impedito all’esercito israeliano di pestare e sequestrare uno dei suoi registi palestinesi.

Con tre attori, due stanze e un ettaro di ulivi Maha Haj riesce a dirci molto di più senza mostrare violenza né sangue, anche gli israeliani non compaiono, eppure sappiamo benissimo dove si sta svolgendo l’azione, chi sono i colpevoli e quando sta accadendo. In un’intervista uscita sul Manifesto la regista ha difeso la sua scelta di non mostrare la violenza ma di volersi sollevare oltre l’immagine retorica che abbiamo dei palestinesi che sono molto più di quanto ci viene mostrato: la Palestina non è fatta solo di check-point e macerie.
Esistono anche operazioni contrarie, ad esempio To Gaza di Catherine Libert, ennesimo film che è stato proiettato solo in sede di festival, è una raccolta di video degli attivisti, fotografi, giornalisti e medici che hanno postato sui social dal 7 ottobre in poi, con la volontà di impedire che si perdano nell’algoritmo che accosta la strage ad un maglione in cachemire o un agriturismo in campagna. La regista ci tiene a ricordare che molti dei suoi protagonisti che vediamo apparire sullo schermo sono stati uccisi prima della fine del montaggio della pellicola.
Tuttavia, la scelta di un film di fiction è dovuta al fatto che la portata drammatica della tragedia palestinese non merita soltanto di essere schiacciata sul reale di ciò che sta accadendo ora ma anche di essere raccontata tramite i suoi prodotti culturali, tantissimi, pensiamo ad esempio al film Il tempo che ci rimane (in cui Maha Haj era scenografa), toccante, profonda e ironica testimonianza degli avvenimenti che hanno colpito i palestinesi a partire dalla Nakba.
Quello che più colpisce di questo film è come riesca a mettere in discussione le narrazioni disumanizzanti— ovvero quelle opposizioni binarie tra vittima ed eroe, tra empatia e resistenza. Invece, ci offre qualcosa di più onesto, più naturale: un ritratto della vita che esiste al di là di questi schemi limitanti.

Ci mostra una coppia, profondamente ferita, ma anche ordinaria, che affronta il dolore attraverso il racconto. Attraverso narrazioni condivise, intime, immaginate, mai del tutto concluse, si rifiutano di essere ridotti al silenzio. Questo è profondamente radicato nella cultura palestinese, dove la storia orale è da sempre uno strumento vitale di resistenza: storie tramandate di generazione in generazione che costruiscono l’identità, la memoria e il senso di appartenenza. Sono i racconti dei nonni e degli antenati su ciò che hanno vissuto a formare la nostra memoria e il nostro modo di dare significato al mondo. Quel che conta non è l’accuratezza fattuale, ma l’atto stesso del raccontare. La narrazione diventa la verità che porta significato.
Un altro aspetto importante su cui riflettere è come la relazione dei protagonisti metta in discussione molti degli stereotipi che un pubblico occidentale potrebbe avere sulle coppie arabe o musulmane. Vediamo invece un marito e una moglie che litigano, si prendono in giro, condividono le responsabilità domestiche e si parlano con tenerezza e frustrazione, da pari. Il film ci mostra una dinamica familiare che rifiuta sia il cliché della vittima passiva sia lo sguardo appiattito dell’esotismo culturale.
Questo è anche un film che non parla solo dei palestinesi, ma ai palestinesi.
Spesso i registi palestinesi sono chiamati a fare i giornalisti, gli storici, i politici con il compito di spiegare la realtà palestinese, ma più spesso la sofferenza palestinese allo sguardo occidentale, cercando di educare il pubblico o di suscitare la sua empatia. Questo film rifiuta questo mandato. Non scende a patti. Non supplica. Non semplifica la propria storia per adattarsi alla coscienza occidentale. Invece, ci offre qualcosa di più: uno spazio dove i palestinesi possono vedersi riflessi nella loro piena complessità.
Detto questo, è difficile proseguire senza collocare il film nel contesto della violenza coloniale. L’occupazione israeliana non si limita a uccidere ma usa l’uccisione di massa come strategia calcolata per frammentare le famiglie, distruggere la continuità, cancellare la memoria collettiva e ogni possibilità futura di resistenza. La violenza non è accidentale o collaterale; è strutturale. Mira a spezzare la linea tra le generazioni e a estinguere perfino l’immaginazione della resistenza.
Eppure, questo film ci mostra che questa strategia fallisce. Nonostante il tentativo sistematico di dettare il futuro dei palestinesi, è proprio l’immaginazione, condivisa, fragile, persistente, che resiste al controllo. La coppia nel film immagina un futuro. Secondo noi questa non è ingenuità o solo un coping mechanism ma è radicalità, è sumud, parola intraducibile che significa resistenza attiva, tenacia, perseveranza, sopravvivenza piena di vita. Una parola potentissima che accomuna i palestinesi e che permetto loro di sentirsi ancora un popolo, nonostante tutto quello che hanno subito. L’atteggiamento dei due protagonisti è un atto di resistenza e un rifiuto di permettere anche alla colonizzazione più brutale di limitare il campo del possibile umano.
La regista ha dichiarato che quando ha montato il film, come palestinese e come artista, aveva ancora speranza che il mondo avrebbe fatto qualcosa, che non avrebbe distolto lo sguardo e che i diritti umani sarebbero stati garantiti. Oggi forse farebbe un film completamente diverso perché ha dentro di sé solo rabbia, non riesce più a coltivare la speranza. Non farebbe più un film artistico e delicato perché la sua fede nell’umanità si è esaurita. Vorrebbe solo scuotere le coscienze perché questo genocidio abbia fine.
Ma noi pensiamo che anche questo genere di film abbia legittimità di esistere.
Pregno, densissimo, lirico e straziante sono tutti aggettivi insufficienti; questo film rappresenta bene la cultura con la C maiuscola che nonostante tutto ha ancora la forza di invitarci a sedere alla propria tavola, come fa la famiglia con il giornalista. Questo film è arte e lo rivendica anche per ricordarci che i palestinesi non sono solo le vittime di ciò che sta accadendo, ma anzi sono pronti a rifiutarlo per dare vita ad una nuova immagine luminosa di futuro. Se non saranno i nipoti di Lubna e Suleiman a cambiare i denti saranno altri bambini di Gaza, se non potranno coltivare la terra, curare gli ulivi e mangiare le uova delle loro galline arriveranno nuovi palestinesi per creare nuove famiglie di superstiti e vivere nella terra che appartiene loro.
Questo film può essere letto come un delicato e fortissimo invito a partecipare come spettatori e commensali alla tavola dei due protagonisti per vedere davvero cosa significa vivere e morire di occupazione.
Non è possibile trovare consolazione nell’idea che la storia punirà i colpevoli e gli ignavi e che esisterà un luogo nel futuro in cui coltiveremo le olive e porteremo il nostro pesante fardello, bisogna agire ora. Leggendo libri di palestinesi e dedicati alla Palestina, boicottando, alzando la voce, guardando film sulla Palestina e di registi palestinesi, firmando petizioni e sostenendo attivamente le campagne di raccolta fondi.

In quest’ottica si inserisce anche la bella raccolta fondi reperibile su Produzioni dal Basso, Education under Occupation dedicata alla biblioteca di Burin, villaggio della Cisgiordania occupata. I fondi raccolti serviranno per acquistare libri, riviste e materiale di cancelleria, tavoli, sedie e librerie, ristrutturare l’edificio, attrezzare una parete per la proiezione di video, per cineforum e formazioni a distanza, ovvero per costruire memoria e futuro, due cose che lo stato di Israele sta cercando ad ogni costo di cancellare. Ma non glielo permetteremo.
Perché se nel film, la regista sceglie come ambientazione “un luogo nel futuro”, per noi quel luogo deve essere la Palestina.